Buongiorno lettori, è venerdì quindi torna il consueto appuntamento con Marina e una delle sue recensioni.
Questa settimana leggevo con interesse le considerazioni in IG di Lucia Accoto (se volete curiosare: “accotol”), in merito alle recensioni che vengono postate. Tralascio volutamente il discorso sulle recensioni che sono un copia-incolla delle sinossi o i post di mera pubblicità di libri in uscita. L’argomento che mi aveva interessata maggiormente verteva sul fatto che in questa pagina ci si auspicava un maggior numero di recensioni dove le sensazioni personali - e quindi il costrutto della maggior parte della recensione - dovrebbe essere ciò di cui si scrive (sintetizzo per non dilungarmi).
E vediamo un po’ questa tesi all’opera…?
A cura di: Maria Cristina Secci
Casa editrice: Gran Via, 2018
Pagine: 203
Trama: Fino a poco tempo fa quasi sconosciuta al lettore italiano, la narrativa boliviana sta vivendo un momento di improvvisa e forse inattesa fioritura grazie a un numero crescente di autori nati tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta che, accanto ad argomenti storici e politici, sviluppano nei rispettivi testi temi più personali e intimi, con varietà e vivacità formale sorprendenti. "Una generazione giovane dinanzi alla tradizione e vigorosa nel proprio tempo", dunque, che si sta facendo pian piano ineludibile, divenendo punto di riferimento per chiunque voglia avvicinarsi alla letteratura ispanoamericana di inizio secolo. Dopo le antologie incentrate sul racconto messicano, cubano e cileno, questa nuova selezione dedicata al paese andino propone contributi di scrittori che con le loro opere si stanno facendo ambasciatori della letteratura boliviana nel mondo.
RECENSIONE:
Ieri sui blog che partecipano ai viaggi virtuali di “Lettori intorno al mondo”, Vi ho accennato alla Bolivia, chiedendoVi poi di seguirci oggi qui, per non creare un post troppo lungo e quindi dividendo la parte del viaggio dal libro che mi ha fornito l’occasione di parlarvene.
Racconti. Che negli ultimi tempi vengono apprezzati un po’ di più. Nel mio caso, perché ultimamente mentre sto leggendo un libro, per quanto entusiasmante, ho la curiosità di iniziarne subito un altro. Una raccolta di scritti di autori mi consente a volte di incanalare il mio interesse in un unico libro.
Come dicevo ieri, un plauso a Gran Via Editore e ai traduttori di questi tredici autori, perché la letteratura boliviana, salvo qualche altro caso sporadico di raccolte e/o autore che emerge, resta sempre in una sorta di sottobosco.
In questa raccolta, tra l’altro, gli autori, con un’unica eccezione, sono tutti nati dopo il 1970. Una generazione che sembra scostarsi dalla precedente per i temi che porta avanti. Non più una sorta di obbligo morale nel sentirsi in dovere di parlare delle condizioni socio-economiche, politiche e culturali del proprio Paese, ma la possibilità di spaziare con argomenti che, anche se ci riportano a tali soggetti, lo fanno partendo da scelte tematiche diverse.
Così, se la famiglia è utilizzata dagli autori della generazione precedente per denunciare le condizioni sociali e familiari dell’epoca o della tradizione sud-americana in generale e boliviana in particolare, con specifico riferimento anche alle origini indigene, ora gli autori più giovani utilizzano la propria voce per narrare storie legate intimamente alle nuove generazioni, al cambiamento sociale, ma senza dover vincolare il racconto alla politica o a quel realismo sociale di denuncia che a molti lettori, se così francamente esplicitato, non piace o non interessa.
SEBASTIÁN ANTEZANA, MAXIMILIANO BARRIENTOS, MEGELA BAUDOIN, NATALIA CHÁVEZ GOMES DA SILVA, LILIANA COLANZI, GABRIEL ENTWISTLE, RODRIGO HASBÚN, SAÚL MONTAÑO, FABIOLA MORALES, EDMUNDO PAZ SOLDÁN, GIOVANNA RIVERO, ALEJANDRO SUÁREZ, WILMER URRELO ZÁRATE.
Ci troviamo quindi di fronte a 13 autori che ci intrattengono con altrettanti racconti, più o meno lunghi, alcuni già pubblicati, altri in fase di pubblicazione (quantomeno nel 2018), con argomenti gli uni diversi dagli altri, alcuni “escatologici” e quindi di ampio respiro, alcuni legati al mondo famiglia – e alcuni di una violenza così inaudita da lasciarci con il libro aperto, in attesa che il cervello registri le parole traducendole in significato tale da poter essere compreso, poi sedimentato, alfine riposizionato fuori da noi stessi per dargli un senso che per noi abbia un valore oggettivo.
E se quindi alcuni racconti mi sono subito penetrati nella pelle come se fossero situazioni che avrei potuto vivere, essendo ad esempio donna e madre… penso ad esempio al magnifico quanto innervato nel profondo abisso di insicurezza di tutte le madri di “Nel Bosco” di Giovanna Rivero, il cui argomento mi ha fatto venire in mente quanto detto da Tommaso Scotti nel suo “L’Ombrello dell’Imperatore”, a proposito della legge sulle adozioni di minori in Giappone… d’altro canto altri racconti mi hanno lasciata volutamente estranea, come estranea m’è la storia della Bolivia, che ho volutamente evitato di “ripassare” prima di leggere i racconti.
E a tal proposito, per associazione di idee, il violento “La Giapponese” di Saul Montano, che fotografa una gioventù inutilmente rabbiosa, dove la vita sembra scorrere tra notti di alcol, sesso e violenza gratuita senza soluzione di continuità, e dove l’inutilità di questa vita dà la stura ad una truculenza senza senso, ma legata al piccolo paese che non offre nulla di più di quello di cui i ragazzi si servono selvaggiamente.
O ancora “Deforme” di Fabiola Morales, con una danza di similitudini medico-letterario-artistiche tra la protagonista del racconto e l’arcinota artista Frida Kahlo e la fotografa del popolo Dorothea Lange, da cui farsi tentare in Internet per scoprire che una delle sue fotografie più famose ci farà esclamare: “Ah!, ma è sua”? (Migrant Mother)
Ci sono poi racconti incentrati sulla vecchiaia, per esempio il “Foto di famiglia” di Liliana Colanzi, colpevole fra l’altro di avermi fatto scoprire questa raccolta di scritti quantomeno ricchi di potente vita boliviana.
E che dire di “Dochera” di Edmundo Paz Soldan, che ci fa vivere la vita di un enigmista famoso, in attesa del successivo incontro con questa donna misteriosa, “Dochera” appunto, che nemmeno dopo il 57esimo cruciverba dedicatole decide di palesarsi al mondo e soprattutto al cruciverbista.
Ce ne sono parecchi tra quelli che ho letto, anche se magari violenti, che mi sono piaciuti. Ma chiudo parlandoVi di “Vecchi che guardano porno” di Sebastian Antezana, perché, titolo svela, ci parla di due uomini che alla fine del loro ciclo vitale si incontrano, si innamorano, decidono di condividere gli ultimi anni della loro vita in un tran-tran soddisfacente, dove il picco sentimental-corporeo viene raggiunto con la visione di film porno, unitamente alla ricerca di un possibile reale che si celi dietro alla finzione degli attori. Finchè all’orizzonte appare Lui, che spezza gli equilibri teoricamente oramai radicati. Ed allora, da anziani come da giovani, la passione e la paura ci fanno vivere sensazioni terrificanti che richiedono sacrifici…
E così, come potete vedere, le parole sgorgano ma si fanno poco confidenziali, perché il desiderio di far capire di cosa racconta un libro è forse più forte di parlare di sensazioni personali, che proprio per la loro natura potrebbero svilire o quantomeno mistificare il senso di quanto si dovrebbe invece raccontare. Se quindi nell’incipit Vi ho proposto nascostamente un dilemma, nella chiusa dichiaro di non essere riuscita a darmi una risposta definitiva. Resta infine qui però la potenza di una scrittura di un collettivo che ci parla della sua terra, che dista anni luce dalla mia provincia ed dalla mia educazione piccolo borghese.
Come per il dubbio che non posso sciogliere con certezza, così questi racconti alla fine una cosa in comune ce l’hanno, a parte raccontarci di una Bolivia grandemente inesplorata: il finale. Che rimane come in sospeso, quasi volesse dare a noi lettori la possibilità di decidere per i vari personaggi e regalare alle loro storie una probabilità ancora in divenire. Un po’ come la mia recensione.
A presto
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