venerdì 3 novembre 2017

Letture con Marina #24

Buongiorno lettori, settimana alleggerita grazie al mercoledì festivo! Non possiamo fare una petizione per istituire perennemente la festa a metà settimana??? Sarebbe splendido...
Vabbè, la smetto di sognare e vi lascio con Marina e con la sua rubrica Letture con Marina.

  

Buongiorno e benvenuti nel mese di Novembre. Quest’oggi vorrei portarVi a New York (tristemente alla ribalta in questi giorni per il terribile “incidente” in cui sono rimasti vittime alcuni innocenti ciclisti) e nella provincia americana con: Mi chiamo Lucy Barton, del premio Pulitzer Elizabeth Strout.
Titolo: Mi chiamo Lucy Barton / My name is Lucy Barton
Autore: Elizabeth Strout
Casa editrice: Einaudi
Traduzione: S. Basso
Pagine: 161
Genere: Narrativa
Anno di pubblicazione: 2016

Sinossi: In una stanza d’ospedale nel cuore di Manhattan, davanti allo scintillio del grattacielo Chrysler che si staglia oltre la finestra, per cinque giorni e cinque notti due donne parlano con intensità.

RECENSIONE:
Ho mai postato una sinossi così breve? Eppure molto altro da dire non c’è. Perché è tutto nel gioco che la scrittrice intesse tra vita reale e ricordi. Nel rapporto privilegiato tra madre e figlia. Un rapporto sicuramente di amore, ma di amore silenzioso, quasi dato per scontato, talvolta fastidioso e non sempre capibile da parte di una figlia.
Il tutto si svolge nell’arco di cinque giorni. Lucy, ricoverata in ospedale per lungo tempo – a causa di complicanze post-operatorie – con un marito che oltre che al lavoro deve anche badare alle figlie piccole – si perde nella solitudine e nell’isolamento della “reclusione” ospedaliera, che diventano insostenibili. Proprio in quel frangente, la madre va a trovarla. Per farlo, deve affrontare spese e soprattutto un lungo viaggio dalla lontana cittadina rurale di Amgash, oltre che cimentarsi nella sfida di cavarsela in una grande città.
Lei, una donna che arriva da una povera cittadina della provincia americana. Questo incontro durerà solo pochi giorni – deve durare così poco perché i problemi tra le due donne sono molti e incancreniti. Lucy, ancora giovane, grazie alla sua istruzione e caparbietà, se ne è andata dal paese natio, dalla povertà più estrema e da tutte le problematiche familiari. Ha creduto di lasciarsi tutto alle spalle per crearsi una nuova vita – di donna, madre e scrittrice – a New York. Ma come la vita –amaramente – insegna, i problemi non affrontati e soprattutto non risolti ci seguono sempre, come un’ombra fedele. Un magnifico flusso di parole e di ricordi ci irretisce – e consente anche a Lucy, per lo spazio di cinque giorni, dal privilegiato e sicuro posto di osservazione in cui è costretta – il suo letto d’ospedale – a riascoltare e riesaminare il suo passato dalla prospettiva di donna-bambina.
Non avranno la possibilità di un altro incontro, di un’altra chiarificazione. Le parole non dette resteranno tali. Il gelo non potrà sciogliersi al calore di un’altra primavera. Ma le persone sono come sono – e Lucy e la madre sono stereotipi che non avranno la forza di uscire dalla strada assegnata loro dalle circostanze della vita. Così come accade a noi, se ripensiamo al rapporto con la nostra mamma. Come disse la figlia di Lucy: “Mamma, se uno scrive un romanzo, lo può sempre riscrivere, ma se vivi per vent’anni con una persona, il romanzo è quello, non è che lo puoi riscrivere…” Ho pensato spesso a questa frase in sé così elementare, ma che non ci permette comunque di fare cambiamenti sostanziali. Perché anche noi, come le due donne del romanzo, seguiamo i binari del ns carattere, delle ns esperienze, della vita che ci è stata data in sorte… E questo, unito al ricordo di uno splendido romanzo tutto sommato intimista, mi fa pensare spesso al richiamo più innocente del mondo – quando la propria figlia chiama: mamma… E temo il momento in cui assumerà un suono diverso dall’universo di fiducia e amore incondizionato che ha all’inizio. Un suono di incomprensione per una generazione diversa e per le scelte fatte da questa figura genitoriale che si chiama madre. E per l’amore che si tramuta in fastidio, incomprensione, odio…
Donna adulta oramai e teoricamente sicura di sé, bambina a causa dell’appellativo “bestiolina” pronunciato dalla madre all’arrivo in ospedale e che la getta nuovamente e con ferocia nella sua infanzia. Un’infanzia brutale e solitaria, di una povertà dolorosa. La madre di Lucy ci porterà nel paese rurale di Amgash e ci parlerà delle persone che lì abitano, persone che Lucy conosce.
“Ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Ma sempre una sola ne avete”
E’ stato molto interessante incontrare l’autrice Elizabeth Strout lo scorso Settembre al Festival Letterario PordenoneLegge. In quell’occasione presentava il suo ultimo lavoro: “Tutto è possibile”. Appena uscito in Italia, è il racconto della vita di tutte quelle figure del paese di Amgash di cui aveva accennato la madre di Lucy in ospedale. Alcune di loro effettivamente erano state accennate in modo così accattivante che meritavano una storia a se stante. L’autrice stessa racconta che, durante la stesura di Mi chiamo Lucy Barton, teneva due distinte postazioni alla scrivania per scrivere il romanzo di Lucy ed in contemporanea abbozzare meglio le storie dei compaesani della famiglia Barton. In questo nuovo romanzo uno dei capitoli è dedicato proprio alla famiglia Barton – nello specifico soprattutto a Lucy, alla sorella ed al fratello.

BREVI CENNI BIOGRAFICI:
Originaria del Maine. Laureata in letteratura inglese nel 1977 e in giurisprudenza alla Syracuse University, ha insegnato al Manhattan Community College e i suoi racconti sono apparsi su Redbook, Seventeen, Oprah Magazine e New Yorker. Nel 2000 è stata tra i finalisti dell'Orange Prize ed è stata nominata per il Premio PEN/Faulkner per la narrativa. Nel 2007 ha insegnato alla Colgate University come professoressa del National Endowment for the Humanities. Nel 2009 ha vinto il Premio Pulitzer per la narrativa con Olive Kitteridge (2008) romanzo che nel 2010 le ha permesso di aggiudicarsi anche il Premio Bancarella, con l'edizione tradotta e pubblicata dalla Fazi Editore nel 2009. Vive tra il Maine e New York, con il marito James Tierney, avvocato e politico, e la figlia.

A presto,
                             

4 commenti:

  1. Ciao! Non ho mai letto niente della Strout però questo libro, e anche altri, mi ispirano molto, quindi sicuramente prima o poi lo recupererò! Incontrare gli autori è sempre emozionante *_*

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  2. Ciao Gaia! Mi sono piaciuti molto entrambi: Mi chiamo Lucy Barton e Tutto è possibile. Però Tutto è possibile, cronologicamente posteriore (appena uscito) l'ho trovato meraviglioso.
    Da leggere però dopo Mi chiamo L. Barton.
    Invece (che nn mi senta nessuno) Olive Kitteridge, con cui ha vinto il Pulitzer... nn mi è piaciuto molto.
    Non tanto per la scrittura dell'autrice, quanto proprio per il rapporto madre-figlio descritto e la provincia di cui parla.

    Eh sì, incontrare gli autori e poterci parlare è sicuramente un di più.
    Ottimo per comprendere meglio un romanzo.

    Spero li leggerai.
    A presto, Marina

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  3. Devo assolutamente leggere Tutto è possibile! Lo ho prestato a te? ;-)
    baci da lea

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  4. Eh sì, restituito stasera in biblio, speravo di trovarti lì 😉
    "Tutto è possibile" secondo me è ancora più bello di "Mi chiamo Lucy Barton".
    Belle letture!
    Buona serata, Marina

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